Era una donna dolcissima. Si era trasferita a Roma da giovane, veniva dalla Sardegna, e questo viaggio ai miei occhi di bambino aveva una connotazione mitica. Nella mia mente visualizzavo la Sardegna come una spiaggia infinita, in cui la giovane nonna Carmela si godeva la vista del mare adagiata su una comoda sdraio. In un momento non ben definito, ma coincidente con la sua immagine di cinquantenne che è la sola con cui la ricordi, aveva deciso di trasferirsi nella capitale. Lo aveva fatto per stare con me, ne ero certo. Era una persona estremamente semplice, non aveva finito le elementari, e per firmare le carte del suo matrimonio con nonno Nicola aveva imparato a scrivere il proprio nome e cognome dal dottore presso il quale aveva lavorato temporaneamente come collaboratrice per le pulizie. C’era una foto di quel giorno così importante a casa sua: nonna Mela e nonno Cola, raggianti. Ci incontrammo perché faceva le pulizie dalla migliore amica di mia madre, una professoressa di lettere presso un istituto alberghiero. I bambini non conoscono caste e ambizioni, per cui io abitavo quella casa con “l’argenteria buona” e i volumi della Cucina Italiana pronti all’invito del prossimo “ospite importante” trovando assolutamente naturale che nonna Mela vi si aggirasse a proprio agio. Ogni tanto andava lì a fare quel che faceva anche a casa sua, tutto qui. Non ricordo di preciso quando mia madre prese l’iniziativa di chiederle di farmi da tata, ma fin dall’asilo iniziarono i pellegrinaggi verso casa sua: veniva a prendermi dalle suore a San Giovanni e mi dava un succo di frutta alla pera. Poi prendevamo l’81, il “tranvetto”, e forse un altro mezzo di cui ho un ricordo molto sfocato. Tra le prime cose che imparai a leggere, c’era la targhetta sugli autobus accanto ai sedili: “Posto riservato a invalido di guerra o mutilato civile”. Per me quella casa era un paradiso: era il solo luogo in cui mi fosse consentito guardare i cartoni animati che passavano sull’emittente locale, dapprima denominata T.R.E. e successivamente Super 3. Carletto il principe dei mostri, l’Uomo Tigre, Ransie la strega. Nonna Mela mi sedeva accanto, commentava, si appassionava. Cucinava una frittata di patate che resta nei miei ricordi come la cosa più buona che abbia mai mangiato, soprattutto in forza dell’idiosincrasia di quegli anni nel dar da mangiare le uova ai bambini, per cui il limite fissato a una sola fetta accresceva il desiderio e creava l’anticipazione per la volta successiva. E poi, a casa di Nonna Mela, c’era il balcone, cosa che io non avevo. Uno dei suoi tre figli, Lorenzo, frequentava l’istituto odontotecnico, e per un lungo periodo sul balcone giacque un sacco con dei ghigni in gesso, un oggetto conturbante che suscitava ai miei occhi al contempo desiderio e terrore. La figlia Giusy, perché Roma non tollerava il sardo “Giuseppina”, aveva studiato fino al secondo anno di scuola superiore. Quando io, con la cattiveria tipica dei bambini, mi vantavo del fatto che mia madre avesse la laurea, e così mio padre e mio nonno, mi rispondeva piccata “Ma io c’ho l’attestato!”. Era una ragazza bellissima, nei confronti della quale ho vissuto una sorta di Edipo sororale, fin quando un giorno, una delle ultime volte in cui andavo da nonna Mela e avrò avuto una decina d’anni, mi resi conto che non potevamo più star sdraiati insieme sul divano a vedere la televisione. Non lo sopportavo più. Il terzo figlio, Antonio, ricevette in regalo per un suo compleanno il Commodore 64, e da quel momento ai cartoni animati si aggiunsero i videogiochi, in quel paradiso che era sempre più perfetto. Nonno Cola tornava alla sera, dopo cena. Lavorava come salumiere sulla Prenestina, e aveva perduto diverse falangi sul campo. Io mi chiedevo sempre se quei pezzi di carne umana, partiti insieme a mortadella e prosciutto, gli valessero l’ambita qualifica di mutilato civile, quella condizione che spesso mi obbligava a restare in piedi nel bus. Mi voleva bene, ma era davvero un uomo di poche parole. Non tornava mai a casa senza un ovetto Kinder, e io venivo sottratto alla televisione in quell’incoraggiamento del rispetto del patriarca che era un tratto così bello delle famiglie di un tempo: “Hai dato un bacio a nonno Cola? Gli hai detto grazie?”. Il sabato e la domenica andava al laghetto a pescare, ma era terribilmente sfortunato. Finiva per gettare del mais in acqua per attirare i pesci, col solo risultato di fare dei regali a degli ingrati proprio come con gli ovetti Kinder a me, e a quanto pare nessun pesce si sentiva di incoraggiare gli altri a dare un minimo di soddisfazione a nonno Cola dopo una dura settimana di lavoro. Il rituale completo di nonna Mela prevedeva una visita a Casa 88, un negozio presso il quale sostavamo di ritorno dal Conad, dove non potevano mancare l’acquisto de “l’affettato” e “qualcosa da sgranocchià”. In edicola nonna acquistava regolarmente “Tivù e sorrisi”, quindi arrivava finalmente il tempio ambito, nel quale avevo diritto di scegliere un giocattolo, ma non troppo grande. Una volta nonna Mela mi chiese di accompagnarla a fare una commissione. Il mio senso dell’orientamento, per quanto possibile, era peggiore di quanto non sia adesso, e conservo delle immagini lisergiche di quel viaggio in cui cambiammo almeno quattro mezzi pubblici. Durante la trasferta, una vetrina di un negozio di giocattoli attirò la mia attenzione, le dissi che il grande pupazzetto di Donatello delle tartarughe ninja era ciò che avrei desiderato per Natale. Sarà stato settembre. Bene, tre mesi dopo ritrovai esattamente quel gioco impacchettato sotto l’albero a casa di nonna. Ero già cinico e disincantato rispetto al mito di Babbo Natale, ma quella volta le mie credenze vacillarono. Mi sembrava impossibile che una persona così semplice avesse potuto mostrare un tale insieme di attenzione, perspicacia, memoria. Non avevo ancora studiato al liceo “l’intelletto d’amore”. Nonna teneva sempre in casa, anche quando diventai grande, una mia foto in una cornice a forma di cuore. Il cerimoniale della dormizione era estremamente poetico: io andavo nel lettone grande fra nonna Mela e Giusy, nel piccolo corridoio antistante nonno Cola si adagiava su una brandina, perché doveva svegliarsi alle cinque. Nella cameretta attigua, molto piccola ma divinizzata dalla presenza del Commodore 64, stavano i ragazzi. Le tappe obbligate prima del sonno erano le seguenti: un bicchiere di acqua zuccherata, la narrazione della fiaba del brutto anatroccolo in una versione sardo- romana che ne accresceva il mistero, e infine l’alterco con l’inquilino del piano di sopra, accompagnato dalla salmodia sunu degh’annos litighendhe, mentre nonna batteva con veemenza un manico di scopa contro il soffitto. Quando mi comportavo male, nonna mi minacciava di chiamare l’uomo nero. La faccenda divenne particolarmente seria quando mi disse che da alcune settimane il fantomatico mangiatore di bambini si aggirava nel palazzo, e avevo tutto l’interesse a star buono. Fu così che un giorno, mentre facevo i capricci per continuare a guardare la televisione anziché mettermi a tavola, suonò d’improvviso il campanello. Nonna mi venne a cercare e mi disse solenne “Per questa volta ti proteggo, ma la prossima non sarò così buona. Nasconditi sotto il tavolo.” Fu da quella prospettiva di contumace che la sbirciai mentre andava ad aprire la porta: “Buongiorno signora! Sa, stiamo passando da giorni, ci sono bambini in casa?” “No, non ne abbiamo.” Tremavo come una foglia, il volto di nonna comparve sotto mentre si chinava, come a piegare la mia fierezza di intellettuale libero dalle superstizioni: “Che ti avevo detto? Mettiti a tavola”. Quella faccenda mi ha tormentato per anni. Ad oggi credo che fosse qualche venditore porta a porta che proponesse dei prodotti per l’infanzia. Ma potrebbe benissimo essere stato l’uomo nero. Smisi di andare in quella casa da adolescente, ma chiamavo saltuariamente. Antonio divenne un avvocato, Lorenzo un poliziotto, Giusy la moglie di un uomo molto benestante, e la felice mamma di due bambini. Quando nonna Mela si ammalò di una neoplasia cerebrale, presentava degli stati confusionali in cui mi cercava disperatamente. Mi credeva ancora bambino, si chiedeva dove fossi, se mi avesse preso l’uomo nero. Talvolta i figli mi telefonavano e me la passavano, cercavo di rassicurarla. La mia ultima visita dalle parti di Casa 88 fu per il suo funerale. Sull’esistenza di Babbo Natale e dell’uomo nero, grazie a lei, sono rimasto convintamente agnostico. Una volta mi prese in disparte sul balcone e mi rivelò di non essere davvero mia nonna. Ma a questo non ho mai creduto.