Mi trovavo nel salotto di un uomo eccezionale. L’oscurità della sala, un vezzo del padrone di casa che abitava l’ombra con naturalezza e una certa voluptas dolendi, era solo una delle cifre della sua eccentricità. La più importante, quella caratterizzante direi, era il fatto che a settant’anni egli avesse mantenuto intatta la capacità di osservare il mondo da una autentica prospettiva umana: quella di un essere intelligente precipitato in una realtà senza causa né fine apparenti, la quale per gli indiani poggia su un elefante addossato al guscio di una tartaruga, e per chi invece ha letto Leopardi è perennemente attraversata dalla domanda del pastore kirghiso, capace di svuotarla completamente di consistenza, “e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle?”. Ecco: il mio ospite non aveva mai smesso di vedere il mondo per quel che realmente è, non era stato consumato dal mistero, optando per un asservimento cieco ad un preconfezionato religioso, né invocando la ragione come se fosse una ragione. Era un uomo del mistero, che è come dire un bambino con una maschera anziana. In quel salotto io ero arrivato come un amico, un discepolo, irretito dapprima da un rapporto di apostolato musicale – il fatto di essere un grande musicista, seppur non caratterizzante come il fatto di essere un bambino, era pur sempre una delle cifre della sua eccezionalità – e successivamente, negli anni, attratto dalla saggezza come un giovane in cerca della verità smarrita. Perché io, a soli venticinque anni, avevo già smesso di guardare il cielo, e rischiavo per un pelo di diventare uno che si pone domande soltanto di fronte alla dichiarazione dei redditi e alla riservazione della prossima località per fare le vacanze. In quel salotto, il mio ospite dava luogo a vere e proprie sedute iniziatiche, sfumate in quella penombra che dava loro una patina da séance medianica della Parigi della Belle Époque, e del resto è facile sentire il profumo di Francia quando sei in Piemonte. Non mi sono mai spiegato come fosse possibile che gli occhi corvini del mio maestro, implacabili nell’esigere la verità del mondo, rimanessero quali inflessibili sorgenti di luce in quel buio, una luce nera tra le tenebre, quasi che tra i suoi tratti infantili fosse sopravvissuto il potere magico di rendere visibili le pupille nelle grotte, come avviene nei cartoni animati. La seduta iniziava fortuitamente, senza cerimoniali, i posti erano fissi e prestabiliti: accanto alla porta della stanza lui, vicino alla finestra io. Mi leggeva talora i grandi della letteratura, ed è così che alcuni passi di Montale, Manzoni, Eliot, Garcìa Lorca, Pasolini e tanti altri sono entrati a far parte del mio modo di pensare il mondo con parole altrui. Ciò che ho letto per conto mio, e non è poco, lo so. Quel che ho ascoltato lì, lo sono diventato. Quando il maestro attingeva ai suoi ricordi, invece, impartiva lezioni senza averne la pretesa. Per lui il Verbo era nell’arte, e impugnando un libro aveva la passione di un predicatore, pronto a chiamare dalla sua parte qualsiasi rigo o versetto che avessero potuto aiutare a decostruire la patina di falsità accumulata nell’ascoltatore, purificarlo per poterlo infine ricondurre nell’alveo del mistero. Quando invece si abbandonava ad uno scambio privo di un medium letterario, egli desiderava soprattutto riferire ricostruzioni dell’animo umano, come fosse stato un investigatore desideroso di condividere lo stato di avanzamento di un’indagine. Nel suo essere precipitato qui, egli osservava gli esseri umani con una dolcissima compassione, ma senza alcuna compartecipazione, senza giudizio: essi ai suoi occhi erano come le stelle sotto lo sguardo incantato del pastore kirghiso, esseri senza causa né fine apparente, inspiegabilmente sottratti all’infanzia da una agitazione che sembrava, direi con parole mie, una positività fattizia di ciò che il buddismo chiama vacuità di esistenza intrinseca. Quel giorno introdusse il racconto con una malcelata risata, lasciandomi intendere che voleva mettere alla prova le mie capacità di giovane psichiatra. L’investigatore che accumula prove e si rivolge allo specialista, con quella diffidenza di chi resta convinto che una laurea non basti a redimere dallo status di ciarlatano chiunque abbia la presunzione di sottomettere il mondo dell’anima a quello delle cause, tanto più che neanche le cause sono poi così reali, come sa chiunque abbia letto Hume o Musil. “Senti un po’ questa, e dimmi che ne pensi” iniziò “Saranno ormai passati trent’anni. Nella bizzarra compagine del mondo contadino che ronza intorno alla città, abitava un uomo estremamente semplice. Non parlava altra lingua che il dialetto, quell’idioma umano che dapprima il fascismo ha combattuto, e che poi il capitalismo ha definitivamente estirpato con la televisione. Aveva nei miei riguardi un’attitudine profondamente rispettosa. “Salve Maestro!” ogni volta che mi incontrava, ma niente di più. Io ogni tanto gli chiedevo dei suoi giri, perché venisse regolarmente in città in bicicletta, e venni a sapere semplicemente che lo faceva per sfogarsi, quando si sentiva particolarmente teso. Il paesino distava una mezz’ora, egli smetteva di lavorare i campi, veniva a prendere un amaro al bar dove aveva tutto un suo giro di compari, e rientrava particolarmente rappacificato. Questo qui, lo soprannominavano Busìn nel paese per non so quale ragione, venne un giorno a disturbarmi a casa mia. Suona il campanello, quando mi vede ha gli occhi infuocati, è in preda a un’agitazione incoercibile, si scalmana in tutte le direzioni, e mi fa “Maestro, devo raccontarle una cosa”. Ecco, io non so dirti per quale motivo, ma capii che la faccenda era seria. Hai presente Raskolnikov in Dostoevskij? Quel sottile piacere morboso che esiste al limite fra l’impunità, che arriva quasi a rimettere in questione la realtà del delitto compiuto, e la volontà assertiva di una confessione che ristabilisca il senso del reale? Ho percepito nel Busìn una cosa del genere. Lo invito ad aspettare, vado a prendere il cappotto, torno alla porta a gli chiedo di fare una passeggiata insieme. Mentre camminiamo era inquieto, mi parlava della vita del paese, delle faccende del coro della chiesa, non osava chiedere di me per paura di dar sfoggio del suo profondo difetto di competenza musicale, e quindi semplicemente puntuava gli aneddoti ogni tanto dicendo “che poi lei è un grande artista!”. Io lo guardavo, mi chiedevo fra me e me come diamine fossi finito su un marciapiede a parlar di chiese col Busìn. D’un tratto comincia la sua catartica confessione: “Maestro, io sento di doverle raccontare una cosa”, e io con una certa impazienza gli dico “Son qui per questo Busìn”. “Ha presente lei la strada tra le risaie che porta in paese?” “Perdio, ci son cresciuto Busìn, potrei camminare bendato di notte fra quei campi”. “Bene” mi fa con gravità, come a dire che forse c’era una speranza per lui di esser compreso. “Alcuni anni fa mi capitò una cosa stranissima da quelle parti, io venivo come al solito in città. Era mattino presto, c’era una luce ancora molto debole, e un po’ di nebbia. Mentre mi avvicino, vedo una macchia grigia sul lato destro della strada, in lontananza. La sagoma si fa sempre più chiara man mano che pedalo, e finalmente la vedo: una vecchia contadina, con il fazzoletto in testa, che teneva su la gonna con le mani e pisciava.” Fa una pausa solenne, che mi lascia interdetto, non sapevo davvero cosa dirgli. Per un po’ camminiamo fianco a fianco in silenzio, finché non riprende: “Allora Maestro, io non so cosa m’ha preso” me lo diceva veramente in preda a uno stato di possessione, tutto rosso in viso “Scendo dalla bicicletta, mi avvicino alla vecchia che non capisce, mi guarda spaventata, la serro forte da dietro e ci faccio all’amore. Avevo una foga che non ho mai più avuto” Io rimanevo sempre più incerto, nell’ingentilirsi della luce sul finire del pomeriggio, col Busìn che mi raccontava queste cose, mi chiedevo se tutto quel che stavo vivendo non fosse un sogno, e quale potesse poi essere la differenza reale fra l’aver appreso un fatto del genere in stato di veglia o durante il riposo. Il Busìn riprende “Quando ho finito, la allontano con un gesto deciso, brusco. La vecchia non ha mai gridato, è caduta a terra carponi, e si è girata a guardarmi, sempre con quel volto spaurito.” “Ma Busìn” gli dico, “Ma si può sapere perché hai sentito il bisogno di dirlo a me?” “Non lo so Maestro, ma adesso sto meglio”. Prendemmo un caffè, senza dirci granché, nel bar che si trovava alla fine del vicolo. Alla televisione parlavano di sport e della tensione internazionale legata alla guerra fredda. Quando ebbi finito di ascoltare il notiziario feci un cenno al Busìn, affinché mi riaccompagnasse a casa. Ci tenne, e non accettò indugi, ad offrirmi il caffè. Al ritorno non avevo alcun imbarazzo nel restare in silenzio accanto a lui. Avevo già dimenticato la storia della vecchia. Faceva quasi buio. Quando mi lasciò sulla porta, mi fece un’ultima domanda, aveva l’imbarazzo dei primi appuntamenti, quando al momento del congedo non sai se dare un bacio sperando che l’altro ti inviti a salire su. “Maestro” mi fa “Ma non mi chiede una cosa?” Al che mi resi conto che ne aveva davvero bisogno, e sentii che questo mio ultimo atto era necessario, che dovevo aiutarlo a far pace con quel demone. “Certo Busìn, me lo sono chiesto e te lo chiedo. Ma perché l’hai fatto?” E lì, lapidario, con la rapidità di un alunno che freme per rispondere per primo alla domanda della maestra, mi disse questa cosa che forse neanche tu saprai spiegarmi, e che io ancora non mi spiego. “L’ho fatto perché pisciava.””